L’autrice Maria Luisa Carretto, ‘poetessa dell’immagine’, come lei stessa ama definirsi e cineasta, ci racconta alcuni aneddoti relativi al suo film La scomparsa, in programma Lunedì 14 Maggio alle 19. La realizzazione del lungometraggio ha richiesto più di 4 anni, durante i quali l’autrice ha raccolto tanti momenti dal valore umano, oltre che professionale, vissuti con gli interpreti del film, tra i quali Carlo Monni e Giorgio Ariani, recentemente scomparsi.
“Carlo Monni – racconta Maria Luisa Carretto – che conoscevo, mi disse che se avessi avuto bisogno di lui ci sarebbe stato e quindi gli chiesi di fare una parte nel mio film, per il ruolo dello psichiatra. Andai a trovarlo come al solito nel suo ufficio, il Parco delle Cascine, e lui mi ricevette dopo che aveva dispensato qualche parola a una signora che ‘lavorava’ ad un angolo della strada. Pioveva come Dio la mandava e mi ero completamente inzuppata arrivando in motorino. Gli piacque subito l’idea e quando si girò il film gli raccomandai di venire con le scarpe, i sandali no, non sarebbero stati adatti a un dottore. Sul set si rivelò puntuale, bravo e paziente. Gli feci trovare un catering degno di Tognazzi e lui ne fu felice. Di lì a poco purtroppo morì. Fu un grande dolore.
Giorgio Ariani invece venne allo studio Larione 10 per ascoltare la mia idea, mi parlò della sua vita d’attore, e del fatto che era in procinto di girare un film che aveva scritto e mi ricordo che nel bel mezzo della chiacchierata cadde dalla sedia, anzi, la sedia cedette al suo peso. Si mise a ridere a crepapelle. Non si sa se fosse una sedia già un po’ rotta… Anche lui, di lì a poco, purtroppo ci avrebbe lasciati.
Erminia Moscato venne da Milano per il casting e la scelsi perché ai provini fu veramente brava, una attrice a tutto tondo, che sa anche ballare. Davide Gemmani, invece, è nato in Romagna, ha l’accento di Dino Campana, e poi mi ricorda Ingmar Bergman, anche se non glielo dissi all’epoca, uno dei registi che ha avuto grande importanza nella mia formazione.”
La storia è ispirato alla figura di Dino Campana, poeta che morì dopo 20 anni rinchiuso in un manicomio. Con certezza sappiamo che fu il padre ad accompagnarlo nella struttura per la cura delle malattie mentali. D’altra parte era da sempre stato un tipo particolare, fin da piccolo, la madre non lo amò mai. Erano i parenti, nella maggior parte dei casi, a accompagnare in manicomio le persone, da dove non sarebbero più uscite. A volte matti diventavano lì dentro. Vivevano in condizioni disumane, erano praticati loro gli elettroshock, con danni a volte irreversibili, costretti nelle camicie di forza se provavano a ribellarsi. Ma Dino – si racconta – è morto di una banale setticemia. Era nato nel 1885 e morì nel ’32, a soli 47 anni.
“Il mio intento nel girare il film – continua la regista – è stato quello di fare un ritratto del poeta Dino Campana, ambientato ai nostri giorni, con le mie parole, le mie impressioni, il mio sentire. Durante i sopralluoghi scelsi Livorno come città di partenza, per arrivare a Marradi con il treno, un mezzo che nel mio immaginario rappresenta il Cinema. Il primo film dei fratelli Lumière fu un documentario: ‘il treno che parte dalla stazione’.
Per me il cinema è Arte, la settima, non è intrattenimento anche se per la maggior parte delle persone è puro svago. I film sono opere d’arte da vedere al cinema: grande schermo e sala buia, per ricreare ed entrare nell’atmosfera del sogno e della poesia”.